Audizioni allo Young do it, Sangiorgi investito da un’ondata di rapper
12 Aprile 2016 | Inserito da Ombretta T. Rinieri under Bianca, Cronaca, Eventi, Musica, Sociale, Spazio giovani |
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ARESE – Dieci band, un cantautore e una interprete. Questi gli artisti che allo spazio Young do it hanno incontrato Giordano Sangiorgi: Odio Razziale; Quaalude; Anarchy; Jeyrox; Scapegoat Riot; The Last Becks’s; Weezy; Monster; The Black and White; Damned23; Rash; Sara Caputo.
Audizione per audizione, ecco com’è andata.
“La musica c’è, il testo è interessante, le basi sono quelle di un filone che funziona ed è noto – ha detto Sangiorgi ai ragazzi di Odio Razziale dopo la loro “Dimmi Tu”(genere rap) – ma c’è una lista lunga di artisti che fanno cose simili. Allora, se il testo è vostro, mi verrebbe da consigliarvi di appoggiarvi a un arrangiatore. Uno bravo è in grado di arrangiare il brano secondo il vostro sentire, di vestirlo. Un esempio degli ultimi tempi è Francesco Motta, cantante di un gruppo che aveva una piccola notorietà in ambito indipendente e che sta diventando uno dei cantautori più noti perché prodotto da Riccardo Sinigaglia, un produttore che ha dato una mano a tanti e tanti autori importanti. Molto spesso un brano come il vostro, che ha delle intuizioni, può uscire dal filone del già sentito se c’è qualcuno capace di arrangiarlo. A volte bastano solo due note per dare un senso diverso al brano. Perciò rispetto al rap, che è difficile perché ripetitivo, la scossa viene data da chi ci lavora intorno” .
“I discografici non sono interessati agli italiani che cantano in inglese”, ha detto senza mezzi termini Sangiorgi a Federico, chitarrista dei Quaalude (“Hello Darling/ Fake smile”), l’unico della band presente allo Young do it, mentre i compagni erano impegnati a montare il palco in un locale. “Suoniamo in giro per i locali – ha spiegato Federico – per guadagnare quei pochi soldi che ci permettono di registrare. Il nostro genere è un’alternativa al rock. Ma del rock ha dei richiami sonori. Ci piace scrivere i nostri testi in inglese. Musicalmente l’inglese è portante. E’ bello”. “Se volete restare sull’inglese e avere un ritorno – ha consigliato l’esperto – potreste cercare in America una band simile alla vostra, emergente, sconosciuta, e tentare di suonare qualcosa insieme. Vi permetterebbe di fare esperienza e di aprire un po’ il mercato. In alternativa, un elemento interessante potrebbe essere il modello latino-sudamericano. Penso a Manu Chao, che sta uscendo adesso con un nuovo disco. Si tratta di un nuovo filone che può portare dei vantaggi”.
“E’ importante migliorare l’autoproduzione – ha detto agli Anarchy dopo la loro “La fortuna nella sfortuna” – il registro è accattivante. Permette di arrivare dentro al pezzo. Purtroppo il testo, che è essenziale, si sente male. Bisogna registrarlo di nuovo”. Stesso consiglio anche agli Jeyrox per “tempo perso”. “L’introduzione è bellissima. Da chi l’avete presa?”, ha chiesto Sangiorgi. “Da un artista americano”, è stata la risposta. “Un’ottima scelta – ha continuato il critico – ma il testo di cosa parla? E’ poco scandito. Bisogna registrare di nuovo anche questo”.
Gli Scapegoat Riot sono un trio che suona dal 2007 un genere “granger”, che comprende la canzone punk, anche pesante. Presenti il bassista e il cantante della band. “Siamo partiti dal metal che è tutta tecnica – ha raccontato il primo – suoni perfetti. Tutto preciso. Ma siamo sempre stati dalla parte opposta, con la mentalità da Punk anni 70. Ora ci stiamo evolvendo con la tecnica. Nonostante io abbia fatto l’università in inglese, scrivere testi in questa lingua è un muro. Tutti ci dicono: “Ma cosa dite?”. Me lo chiedono perfino le stesse persone del gruppo. Siamo sempre stati in disaccordo. Adesso scriviamo i testi in italiano e da un mese ne abbiamo inciso una ventina”.
“Con il basso e la voce si possono fare grandi cose – ha considerato Sangiorgi – vi sono gruppi con basso e batteria, basso e chitarra. Sui testi in inglese ripeto: cantare in inglese è bello, ma vi invito a tradurre in italiano. in Italia non ci sarà mai una band in grado di sfondare all’estero cantando in inglese, perché il nostro è un inglese smaccatamente all’italiana. C’è poco da fare. Non siamo nordeuropei. Negli anni 70 la Pfm, gli After Hour e altri hanno cercato di colmare questo gap, ma non ci sono riusciti. Fuori, il cantato in inglese purtroppo ci penalizza. In più in Italia non ci sono gruppi di successo che cantano in inglese, perché gli italiani preferiscono il cantato in italiano. Elisa è un esempio di cantato in inglese, ma ha dovuto fare anche altro. Ivan Graziani è stato il primo artista a far capire che si può fare il rock cantato in italiano. E’ più difficile. Le parole tronche non sono facili. Però è un percorso che può dare maggiori opportunità. Poi capisco, anche a me sarebbe piaciuto diventare un grande bassista rock!”. Dopo l’audizione con “Invisibile”, scontato quindi il consiglio spassionato al gruppo: “Bel pezzo. Veramente bravi. Ma riscrivetelo in italiano. Lo Yeee yee funziona e si ricorda”.
Francesca Caputo, interprete, in arte Francine, e Simone Colombaretti, bassista, hanno presentato il lavoro artistico dei The Last Becks’s, il gruppo vincitore del contest aresino allo spazio giovani Young do it. “Noi siamo una band pop rock – ha raccontato Francine – suoniamo cover ma non ci basta, perché la sintonia la trovi se scrivi dei tuoi pezzi. E’ un’operazione di gruppo. Non di uno solo. Si fa squadra”. “Abbiamo tre strumenti diversi, chitarra, basso e batteria, che vanno collegati l’uno con l’altro per realizzare qualcosa che non stoni – ha continuato Simone – E’ complicato. E’ difficile creare un inedito, soprattutto con una band. Ci vuole tanto tempo. Magari ci troviamo un pomeriggio e scriviamo un brano. Poi dopo una settimana lo riascoltiamo. Lo registriamo. Poi lo lasciamo un mese in cantiere. Poi lo riprendiamo in mano. La parte creativa è abbastanza facile, nel senso che se c’è l’idea si può creare qualcosa di interessante. Però rendere un brano da interessante a effettivo su un disco e promuoverlo su Yuotube ci può volere parecchio tempo. Il brano deve maturare. Bisogna riascoltarlo più volte. All’inizio il ritmo può sembrare il mantra più bello del mondo. Ma dopo un mese ci trovi qualcosa che non va. E’ quello il tempo che perdiamo su un brano”.
“Questo modello mi piace – ha convenuto il critico – perché tra l’altro è il modello vincente. La band vince quando lavora in squadra. E non è che obbligatoriamente si debba andare d’accordo, essere in armonia. Anzi, il contrario. Magari ci si scontra duramente. Violentemente, perché si hanno prospettive diverse su un brano. Lo si fa maturare come ha detto giustamente Simone, e magari dopo un mese lo si butta via perché alla fine si pensa di aver fatto un brano che è lontano da quello che si pensava in origine. Ma è proprio dalla sintesi della personalità di ognuno e dal fatto di mettersi in gioco in maniera forte con la voglia di incontrarsi con gli altri che si riescono a creare cose nuove e importanti. Bravi. Complimenti”.
I Weezy, che hanno suonato “Just afraid if love”, è un duo che suona per cambiare il mondo. Uno dei componenti è nigerino. “Per me è difficile parlare di musica – ha spiegato il compagno italiano nella presentazione del gruppo – perché non l’ho mai fatto. Io la musica la suono. Ciò che ci fa sognare e continuare a suonare è il desiderio di cambiare ciò che abbiamo intorno. Il primo concerto è stato a Salmo, vicino a Gorizia. Poi abbiamo cominciato a girare. Il più bello è stato a Monza, a San Rocco, dove c’erano tutti i ragazzini dei palazzi che monopolizzavano il bar. Mentre stavamo suonando, uno di loro è salito sul palco e ci ha detto: “Questo è reale”. Siamo stati contenti. In quel momento ha colto il nostro messaggio”.
“Ricordiamoci – ha detto Giordano Sangiorgi dopo averlo ascoltato – che oltre a essere musicisti noi siamo cittadini attivi 24 ore al giorno. Perché oggi abbiamo un pubblico più votato all’ascolto dei talent e meno a chi realizza musica originale, inedita, innovativa e vuole cambiare le cose? Perché non lavoriamo sufficientemente per cambiare il mondo attorno a noi. Si attirano ascoltatori non solo creando e suonando musica, ma anche tentando di cambiare le cose culturalmente. Che è un po’ quello che fate voi”. Sullo stile dei Weezy, un po’ Nirvana, un po’ Grunge, il critico ha poi dato ai ragazzi il suo consiglio: “La nota tecnica è importante – ha detto – ma purtroppo in Italia non si sente necessità di questo genere di band. Erano molto attuali negli anni 90. Oggi è un modello superato. Deriva dal rock anni 70, che ha segnato un’epoca e a cui tutti fanno riferimento, ma che ormai è datato. La soluzione è prenderne spunto immettendovi elementi innovativi. Non assomigliargli”.
E’ stata poi la volta di Raul, in arte Rash. Vent’anni. Anche lui vuol cambiare il mondo intorno a sé. Canta e suona un rap pop di denuncia sociale. “Dalle Popolari” il titolo del suo pezzo. “Punto sì ad avere successo – ha raccontato – ma il mio obiettivo è qualcosa di più grande perché i miei brani, i miei racconti, quello che io scrivo sono storie che ho visto con i miei occhi. Cose che ho provato. Cose che ho sentito. Cose che magari mi hanno fatto paura e che ho cercato di superare. Sono racconti che quando scrivo riportano qualcosa di me e spero che questa musica un giorno possa aiutare alcune persone che fanno più fatica di me. Il mio progetto è questo”.
“Il mercato dei rapper rivolto ai giovani dai 9 ai 16 anni – è stata la premessa di Sangiorgi dopo aver ascoltato Rash – è una delle tendenze più interessanti del momento, ma è difficilissimo entrarvi. In Italia vi è una lista di circa 60-70 rapper, da quelli più noti a coloro che hanno 200-300 fans su Face book . La molla per arrivarci è avere un messaggio di autenticità, che può spalancare le porte di un successo che già si ha con una nicchia di pubblico. Secondo me il tuo pezzo potrebbe andare in testa a una possibile compilation dello Young do it”.
“L’hai già mandato a qualche produttore rap?” – si è informato con il ragazzo. “No – è stata la risposta – è un album di 14 brani che ho appena registrato grazie a Massimo Giuggioli dei Barabba’s Clown che mi ha regalato la possibilità di incidere. C’è anche un master. Un lavoro di ore. L’album si chiama “Srnl”, che significa rinchiuso nella libertà, una metafora per dire che noi ci sentiamo liberi, ma in realtà siamo rinchiusi da tutto quello che abbiamo intorno. Ho voluto fare un album sulla situazione delle case popolari di Milano. In tv fanno vedere che le cose cambiano, ma in realtà non cambiano davvero. Dalle parti di Forze Armate o della Barona le case hanno i vetri delle finestre rotti. In inverno, estate, primavera. Le persone dormono in situazioni deprimenti. Eppure siamo a Milano, non siamo in Africa. Con la mia musica vorrei che le sistemassero perché lì vivono persone che non hanno i soldi per farlo”.
“Il tema è interessante – ha considerato Sangiorgi – Giusto occuparsi di musica, ma altrettanto giusto è stare attenti a ciò che accade attorno a noi. Lo scandalo Aler a Milano è uno scandalo notissimo. Comporre un brano di denuncia è sicuramente interessante. Poi è prodotto bene. Ti direi di mandarlo a qualche piccolo produttore , magari vicino. Potrebbe essere interessato a fare una co produzione con te. Magari solo su questo singolo, se 14 sono troppi. Bisogna essere molto bravi a tenere desta l’attenzione di un ascoltatore su 14 brani. Caricala su Youtube. Racconta la tua storia. Annuncia che hai tanti altri brani, ma punta su questa. La fai conoscere e poi trova qualche data legata alla visualizzazione di Youtube, così tu la rendi nota su Face book. E’ un pezzo forte. Non è affatto male e parli di un tema attuale di oggi. Il mondo del rap è un mondo molto virale: se arriva un messaggio e poi passa sui social si moltiplicano le visualizzazioni su un progetto. Piccolo e intelligente. Bravo”.
Ancora rap per i The Black and White con il loro “Vado avanti”. “E’ un buon inizio”, è stato il commento di Sangiorgi al loro lavoro, che poi ha allargato il tiro: “Questa ondata di rap mi ricorda Gli Assalti Frontali degli anni 90 – ha detto – che partendo dallo ska sono arrivati al rap, introducendo nel genere elementi di innovazione. Gli Assalti Frontali hanno inciso alcuni dischi tra la metà degli anni 90 e il 2000 anche con il nome Ak46, dove anche lì con un mix di sonorità cercarono di evolversi dal basic del rap. Oggi il filone rap sta andando di moda. Ma come tutte le mode, vi sono i picchi e poi il calo. Come restare in piedi se il filone passa di mercato? “È quello di rendere originale la propria base musicale. E’ quella che rende unici e riconoscibili già dalla prima nota. I giri di rock sono sempre quelli. Santana, Fabbri Fibra hanno un marchio riconoscibile, che li differenzia. Vi invito a fare questo. Ossia a trovare dentro di voi delle basi musicali che sostengono la vostra storia, che è diversa da quella dagli altri. Un elemento che vi caratterizzi e vi dia un marchio . Come avete un nome che è un marchio, un testo che è un marchio, trovate anche nella musica, magari con l’aiuto di qualche musicista, qualcosa che vi caratterizzi. Potreste ascoltare artisti che vi facciano aprire rispetto ad altre musiche. Potrebbe servire ad arricchire le basi”.
I Damneds23 sono una band di tre musicisti. All’incontro con Sangiorgi c’erano però solo il bassista e uno dei due chitarrista. Inizialmente il gruppo era formato da due rapper, poi nel 2012 si è rimescolato. “Ci siamo affiancati io e l’altro chitarrista – ha spiegato Andy – che suona alla tastiera e realizza le basi musicali. Da una parte ci affascinavano i testi e dall’altra volevamo fare qualcosa di più che scrivere solo basi. Così ci siamo messi insieme. La maggior parte di noi non si conosceva. Non c’erano relazioni di amicizia e noi musicisti venivamo da due mondi musicali diversi, dal rock e dallo ska. Quindi il progetto è nato proprio per la musica. All’inizio è stato molto problematico e difficile, perché stavamo mettendo a confronto due mondi che non avevano alcun denominatore comune. Trovare il comun denominatore è stato complicato. Ma dopo un anno e mezzo di prove ci siamo autofinanziati e abbiamo registrato il nostro primo disco. Abbiamo fatto un minimo di autopromozione. Quando è uscito l’album eravamo gasati. La difficoltà maggiore, oltre a quella di far combaciare i generi, è stata quella di suonare live. Nessuno ti conosce. Quindi per suonare abbiamo dovuto trovare locali dove ci conosceva il proprietario ”.
“Questo è un esempio virtuoso di due esperienze che si contaminano – ha detto Sangiorgi visibilmente colpito dal gruppo dopo l’esecuzione del brano “Siamo seduti all’inferno” – Quello di auto prodursi capita oggi al novanta per cento degli artisti, però se avete un buon album non dovete farlo uscire tanto per farlo uscire, ma dovete promuoverlo bene. Altrimenti il disco sparisce. L’altro problema è che nessuno è più interessato agli album. I due terzi dei ragazzi della vostra età ascoltano musica online e di un album non vanno oltre il secondo brano. Qual è dunque il consiglio in questo caso? Da un lato è di aggiornare il linguaggio, perché album lo dicevo io, mentre voi ne dovete usarne un altro obbligatoriamente. Io posso continuare a usarlo, compro ancora i vinili. Ho ancora il tech in cantina. C’è una riscoperta, ma non è così ampia come si racconta. Il boom è nell’online. Per il resto, il progetto musicale complessivo deve stare fuori dall’online in modo da incuriosire la gente a venirti ad ascoltare dal vivo. I pezzi più trascinanti non si devono mettere sull’online e abbandonarli lì augurandosi che qualcuno li scopra. Quando si caricano bisogna essere coscienti che per un certo numero di mesi è necessario promuoverli, come fa Jovanotti su Twitter. Poi invitate il pubblico a venire ad ascoltare tutto il resto del progetto musicale, che non è online. Così non lo regalate a Youtube o a Spotify che lo usano per il loro traffico. Ve lo tenete per voi e i vostri veri fans, che incuriositi da quel singolo verranno a vedervi dal vivo. Il vostro pezzo è ottimo. Complimenti perché lo si può mandare alle etichette. Mandatelo a Maciste Dischi. E’ una piccola etichetta di Milano che sta scoprendo nuovi gruppi. Si sta dando da fare. Ha una band, che è stata tra i finalisti di “Sanremo Giovani”.
Sara Caputo, unica quota rosa fra gli artisti del contest allo Young do it, è una cover di Rhianna che vuole crescere nell’interpretazione. “Purtroppo – l’ha avvertita Sangiorgi – in Italia nel campo dell’interpretazione siamo soldati. Se c’è poco spazio per chi suona musica alternativa, chi si immette in questo tipo di percorso ne ha ancora meno. Se non sbaglio, l’anno scorso gli iscritti ai talent sono stati 60mila. Quindi abbiamo in Italia 60mila potenziali interpreti . Inoltre il modello Rhianna è un modello già sentito. Meglio un percorso autonomo, più naif, che rifare cose altrui. La prossima volta vieni con un pezzo tuo così si comprende la tua personalità”.
Creativo e leggero il rap molto ritmato in “Era tutto un sogno” dei Monster. “Questo tipo di rap – ha spiegato Sangiorgi – è più divertente rispetto a quello sulle case popolari, che al contrario contiene un messaggio sociale, e quindi è più impegnato. La discriminante non è così chiara in quanto le basi sono abbastanza standard, ma da questi due brani capiamo che il rap come l’ipop sono un mondo con un ventaglio di possibilità e di colori che si possono orientare in molti modi diversi. Il vostro è un modello carino, interessante, si presenta bene. E’ un bel pezzo. Pronto da far sentire ai piccoli produttori che possono dare una mano”.
Ombretta T. Rinieri