Rapporti tra giustizia e stampa: se al giornalista si toglie la penna
18 Giugno 2010 | Inserito da Ombretta T. Rinieri under Cronaca, Giudiziaria, Informazione |
In un periodo in cui appaiono sempre più psicologicamente incombenti le iniziative giudiziarie nei confronti dei giornalisti, giunge quasi come un frutto di attualità il parere espresso dall’organo rappresentativo di tutte le componenti associative della magistratura in favore di due riforme in discussione al Parlamento: e cioè sia delle proposte di legge degli onorevoli Sterpa e Violante, che, coerenti alla direttiva n. 70 della legge di delega del nuovo codice di procedura penale in materia di segreto professionale del giornalista, ne rappresentano un’ulteriore articolazione; sia del disegno di legge proposto dal ministro Martinazzoli (recentemente presentato dal governo al Senato) che limita l’applicazione al giornalista della pena accessoria dell’interdizione professionale solo per i reati di diffamazione commessi a mezzo dei media e allorché il fatto sia particolarmente grave ed il colpevole sia stato già condannato più volte per infrazione dello stesso genere.
La stessa Corte di Cassazione ha recentemente ritenuto che l’applicazione di questa sanzione dovesse conseguire solo ad un «abuso della professione», che deve concretarsi in una condotta particolarmente reprensibile dal punto di vista oggettivo in ragione della sua gravità e reiterazione, e dal punto di vista soggettivo dell’intensità del dolo. Sembrano quindi essere ora tenuti presenti non solo il principio costituzionale della libertà di stampa, di cui all’art. 21 della Costituzione, ma anche le conclusioni di un dibattito in sede dottrinale fra giuristi, criminologi, sociologi, sviluppatosi in sede internazionale sin dagli anni Sessanta, nel quale si è andata affermando la convinzione che le sanzioni di interdizione professionale pongano un vero e proprio problema sociale.
In effetti l’uomo del XX secolo, dal punto di vista sociale, non può essere considerato separatamente dalla professione che svolge. E, dal punto di vista individuale, l’attività alla quale egli dedica gran parte del suo tempo fa parte della sua personalità al punto che, privarlo anche solo temporaneamente di essa, può costituire causa di gravi sconvolgimenti psicologici.
L’organizzazione professionale, la politica della professione, nel senso più lato e più nobile del termine, che può tradursi in «igiene sociale professionale», pone problemi generalmente affrontati in maniera parziale e frammentaria delle diverse discipline. D’altro canto è evidente la necessità, per il legislatore, di tener conto, nel disciplinare la materia, sia pure di un esame critico complessivo ed imparziale della realtà giuridica e sociologica.
E’ stato detto che le interdizioni professionali sono sopravvivenza storica della legislazione penale del XIX secolo che configurava la privazione dei diritti civili, civici o di famiglia, come complemento naturale di alcune pene afflittive o infamanti. Caratteristica del diritto moderno, si osserva per contro, è proprio quella di abbandonare queste posizioni repressive. Il carattere di pena accessoria, obbligatoria e automatica, riconosciuto a molte interdizioni, anche se con fine di prevenzione individuale, non fa che aggravare il danno che per il colpevole già consegue alla condanna.
Giustamente, pertanto, alcuni giuristi italiani hanno fatto rilevare che queste interdizioni contrastano con l’art. 27 della Costituzione che vuole la pena finalizzata alla «rieducazione» del condannato e con l’art. 133 del codice penale che impone al giudice di «individualizzare», a tale fine, la sanzione.
La natura essenzialmente e funzionalmente punitiva, a carattere afflittivo, retributivo e intimidatorio dell’interdizione professionale contrasterebbe, quindi con i moderni sistemi penali che tendono a supplire alla funzione della pena classica attraverso misure di moderna difesa sociale che corrispondano a sanzioni più complesse e polivalenti. (Mi sembrano questi i motivi ispiratori della scelta adottata dal progetto di codice penale francese che sopprime la pena dell’interdizione professionale).
Forse la soluzione al problema sta in un migliore autocontrollo professionale, basato su precisi statuti che deleghino ad organismi interni il compito di pronunciare eventuali interdizioni, profondamente diverse per natura ed effetti. L’analisi giuridica può sì effettuare una delimitazione in materia, ma è un settore troppo vasto e complesso per essere disciplinato totalmente ed efficacemente dalle norme del diritto penale.
Adolfo Beria Di Argentine
(dal “Corriere della Sera” del 12 aprile 1986)
ripreso sul sito www.francoabruzzo.it