Alpini. La tragedia di Malles
12 Febbraio 2024 | Inserito da Ombretta T. Rinieri under Cronaca, Cultura, Eventi |
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MALLES – Non avevano nemmeno vent’anni i sette Alpini di leva Domenico Marcolongo, Duilio Saviane, Luigi Corbetta, Davide Tognella, Gianfranco Boschini, Valdo Del Monte e Romeo Bellini del 5° Reggimento della “Wackernell” di Malles, che il 12 febbraio 1972 morirono a 2800 metri d’altezza tra la valle Zerzer e la val Slingia, nei pressi di Malga Villalta, impegnati in un campo invernale nel comune di Curon Venosta.
Cinquant’anni fa in Italia persistevano i timori di una possibile invasione da parte dei paesi del Patto di Varsavia per cui il confine alpino veniva presidiato. Questo compito impegnava il IV Corpo d’Armata che mandava in missione i suoi giovani militari sulle vette con pesanti carichi di armi sulle spalle.
La tragedia di Malga Villalta purtroppo seguiva ad altre simili dato che le manovre ad alta quota avevano già registrato analoghi casi di valanghe con pesanti bilanci di morti e feriti fra i militari. Per restare in Alto Adige, nel 1961 due soldati erano deceduti in val Fiscalina, nel 1970 sette a Ponticello di Braies cui seguì dopo l’incidente di Malga Villalta del 1972, quello del 1974 con la morte di altri tre militari nella zona del Rifugio Coronelle sul Catinaccio.
Purtroppo gli allora vertici militari tendevano a minimizzare la portata di questi eventi fino al punto di imporre ai sopravvissuti il divieto di comunicare con i loro familiari e addirittura di partecipare ai funerali dei compagni deceduti. Almeno questa è la testimonianza di due sopravvissuti di Malta Villalta, Giuseppe Invernizzi e Nevio Brivio, ripresa in un postcard de: “la Voce degli Alpini”.
“Non avevamo fatto il car ed eravamo abbastanza impreparati, – ha raccontato Giuseppe Invernizzi – siamo partiti dalla caserma l’11 febbraio, noi non conoscevamo la meta, la sapevano gli ufficiali. C’era brutto tempo e tantissima neve. Prima di Villalta, sul cammino avevamo trovato un contingente di artiglieri che avrebbe dovuto fare lo stesso percorso, ma vista la neve e la bufera che imperversava nella valle erano fermi da una settimana. Verso le 13.30 di quel venerdì siamo effettivamente arrivati a Vilallta, dove ci siamo accampati nella malga, che usano i montanari per gli alpeggi degli animali. Durante il tragitto avevamo con noi dieci muli carichi di viveri, ma per le difficoltà, ne sono stati rimandanti indietro otto perché non ce la facevano. Siamo arrivati alla malga con i due più robusti, che dopo l’arrivo sono stati anch’essi rispediti indietro. Siamo così rimasti senza viveri. Avevamo delle radio, ma ci siamo resi conto il giorno dopo che non funzionavano. Durante la notte, la bufera imperversava e molti di noi non sono riusciti a chiudere occhio e non so, forse per un presagio, alcuni hanno recitato il rosario. Dovevamo partire alle 3 di notte, ma dato le condizioni del tempo siamo partiti alle 5. Ma anche a quell’ora le condizioni erano pessime. Fatti non più di 150 metri ci siamo dovuti fermare. Ci venne dato l’ordine di far andare in testa chi portava le armi più leggere e dopo altri 50 metri, con una visibilità ridotta a zero, sentimmo un forte tonfo. Allora ci fu dato l’ordine di tornare indietro ma fu troppo tardi. Fummo travolti dalla valanga. Io mi sentii sollevare e rimasi sotto”.
Ricorda Invernizzi che poco dopo venne ritrovato da un compagno che aveva intravvisto un suo piede spuntare fuori dalla neve. “Devo ringraziare il mio compagno Zappella – racconta – che ha visto un mio piede e si è messo a scavare con le mani nude fino a tirarmi fuori. I primi soccorsi sono arrivati dalla artiglieria, perché alcuni esploratori erano saliti per vedere se si poteva andare avanti e poi si sono accorti della valanga e ci hanno dato una mano. Il soccorso alpino è arrivato parecchie ore dopo, allertato dalle radio dell’artiglieria. Quando è arrivato, provvisto di sonde e pale, purtroppo sette militari erano deceduti. Al rientro in caserma, non potevamo uscire, perché erano arrivati dei giornalisti e il comando non voleva che noi uscissimo. Ho dovuto incaricare dei compagni di comunicare ai miei familiari che ero vivo. Hanno fatto i funerali dei sette compagni morti in caserma a Merate”.
Nevio Brivio, commilitone e amico di Giuseppe Invernizzi, con il compito di cannoniere, spiega nell’intervista a “La Voce dell’Alpino”, che quello di Malles è un dramma di cui è ancora difficile darsi pace. “Siamo partiti la mattina di venerdì dell’11 febbraio – ha raccontato – e siamo arrivati nel tardo pomeriggio alla malga. Ci hanno diviso in due gruppi perché nella malga non ci stavamo tutti per cui una parte di noi si è ricoverata nella stalla. Il mattino successivo, il 12 febbraio, avevamo la sveglia alle 3 del mattino, ma fino alle 5 i nostri superiori rimandarono la partenza per le cattive condizioni del tempo. Partimmo ugualmente, prima noi cannonieri per segnare la pista, ma fatta poca strada si affondava nella neve fresca, così il tenente Palestro diede l’ordine di farci passare davanti la compagnia più leggera. Sentendo dei rumori, diede l’ordine di tornare indietro, ma ormai venne giù la slavina. All’appello mancavano venti alpini.
Cercammo i compagni sommersi scavando con le mani nel buio e nella tormenta che procedeva. Le radio non funzionavano, e quindi l’ufficiale Muller andò giù con gli sci al paese di san Valentino a cercare i soccorsi, che riuscirono ad arrivare solo alle 9. Troppo tardi per sette compagni. Al ritorno ricevemmo un ordine tassativo di non parlare con nessuno. Una volta in caserma ci vietarono di uscire e di telefonare anche ai nostri familiari, mentre all’esterno i giornalisti insistevano per ottenere informazioni. Non solo, ci venne perfino proibita la partecipazione ai funerali dei nostri commilitoni morti a Villalta che vennero celebrati alla caserma Rossi di Merano.
Al processo, prima a Verona e poi a Bolzano, siamo stati chiamati a testimoniare per le famiglie dei compagni morti. Il cordino rosso antivalanga lo avevamo tutti in tasca, ma non ci era stato detto di tirarlo fuori. Questo cordino, in caso di cattive condizioni meteorologiche, deve essere tirato fuori, perché in caso di valanghe spunta dalla neve a indicare dove ci si trova. La fotografia che hai dentro è incancellabile, perché scavare con le mani nel buio e nella tormenta per trovare i compagni è qualcosa che rimane dentro. Una tragedia che si poteva evitare”.
Sei mesi dopo la tragedia, accanto alla cappella che ogni anno accoglie in pellegrinaggio i parenti e i compagni dei militi scomparsi, Ettore Mossali, fabbro di professione e fra i superstiti della tragedia, pose una croce in ferro in ricordo delle vittime. Mossali, colpito da una grave depressione, dopo qualche anno si tolse la vita. Per i superstiti, egli è considerato l’ottava vittima del 12 febbraio 1972.
Ombretta T. Rinieri