Il drammatico racconto di Stefano Carli
13 Novembre 2020 | Inserito da Ombretta T. Rinieri under Allarmi, Cronaca, Inchieste, Sanitaria, sars-cov-2, sars-cov-2 |
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COVID – Dal contagio alla malattia. Il giorni nel pronto soccorso affollato. Il ricovero nel reparto sub intensivo sotto il casco per l’ossigenazione. Il caos. I morti. La solitudine. La fame. La guarigione. L’abnegazione di medici e infermieri
ARESE – Un’estate passata facendo trekking oltre i duemila metri sulle montagne di Bormio insieme alla moglie. Qualcosa come 250 chilometri lungo diciotto rifugi. Sportivo. Palestra e golf tutti i giorni. Impegnato come volontario nella Protezione civile e nell’associazione Controllo di Vicinato di Arese.
Questo è Stefano Carli, 64 anni, dirigente in pensione da un anno. Sportivo e prestante, mai si sarebbe aspettato di finire tra ottobre e novembre in terapia sub intensiva all’ospedale di Garbagnate Milanese a lottare tra la vita e la morte a causa del Covid-19. Ne è uscito lunedì 10 novembre, lo stesso giorno dell’anniversario del suo matrimonio ed è, comprensibilmente, al settimo cielo per la gioia. Per tornare in forma, ora gli aspettano tre mesi di fisioterapia.
Ma Carli era ancora in ospedale quando ha battuto la sua storia sui tasti di un tablet e l’ha spedita agli organi di stampa. “Vivere e superare questa drammatica esperienza – spiega – mi ha cambiato profondamente. Ho sentito il bisogno di spiegare quanto sia subdolo questo male, quali scelte decisive ho assunto che mi hanno salvato, come ho vissuto la traumatizzante esperienza nel pronto soccorso, come ho visto morire gente accanto a me e spiegare a tutti le condizioni assurde di lavoro e il rischio costante dei medici e degli operatori sanitari. Infine voglio abbattere il negazionismo Covid ed evidenziare le vere condizioni dei pronto soccorso”.
Tutto inizia il 13 ottobre. Carli si alza con un po’ di tosse e qualche linea di febbre che a sera peggiorano. Il giorno dopo perde l’appetito e deve correre in bagno. Il 15, il medico curante gli consiglia di fare il tampone. Il 17, il responso: è positivo. Parte la cura standard: antibiotico, eparina e cortisone. Il 20 la febbre è calata, ma non ne è fuori. Grazie al controllo giornaliero con il saturi metro, un apparecchietto che misura il tasso di ossigeno nel sangue arterioso periferico (importante nei contagiati dal virus perché rivela l’inizio delle polmoniti), si accorge che i valori sono in picchiata. Il medico gli prescrive una Rx al torace, ma nessun centro è disposto a eseguirla a causa della sua positività. Tuttavia egli non si preoccupa in modo eccessivo. Respira, parla e cammina bene. Non ha febbre. Solo un po’ di tosse.
I timori arrivano il 24. Il saturimetro scende sotto i 90, la soglia d’allarme. Il medico curante lo visita a casa e lo invita ad andare all’ospedale Covid più vicino per la lastra e gli esami del sangue. Sono le 20:30 quando Carli saluta sua moglie e si reca a Garbagnate. Cinque ore prima di essere visitato. Dopo la lastra e l’Emogas (l’esame del sangue che misura la saturazione profonda dei polmoni) viene trattenuto. “La notte la passai su una barella in uno stanzone affollatissimo del triage – scrive nel suo racconto – con una cannula di ossigeno nel naso. Prima notte tra gente che si lamentava e tanti movimenti di entrata e uscita, ma avevo solo bussato alla porta dell’inferno”.
La situazione è grave e il 25 viene trasferito in terapia sub intensiva del pronto soccorso: “Un luogo da medicina di guerra. In continuo arrivano pazienti solo Covid nelle più svariate condizioni, uomini e donne, gli operatori sanitari correvano da un luogo all’altro, avvolti nella regola del tre (tre tute, tre guanti, tre mascherine)… i dirigenti ogni 6 ore scendevano e richiedevano nuovi posti letto requisendo i corridoi, le salette di supporto, ogni buco che potesse contenere un letto veniva sfruttato. L’umanità dei pazienti si scioglieva nei lamenti inascoltati da operatori presi come erano a rianimare arresti cardiaci e inserire drenaggi polmonari operando sul letto stesso del paziente. Vidi il primo morto…”.
La sera stessa del 25 Carli finisce sotto il casco per l’ossigenazione forzata nella Shock Area. L’”Orco”, come lo ha definito lui: “Un casco di plastica pieno di tubi e ganci che mi ingabbiavano e m’impedivano di girarmi e sdraiarmi”. Con due centimetri tra il nasco e le pareti di plastica Carli fu preso da un senso di claustrofobia cui si aggiunse il panico quando con un rumore assordante partì la pompa che gli spingeva l’ossigeno nei polmoni. “Il respiro partì a mille – racconta – e cominciai a sudare, gli occhi cominciarono a bruciare e dopo pochi minuti la gola era ormai secca e mi venne subito l’istinto di liberarmi. Chiamai aiuto, ma c’era troppo caos intorno….il secondo deceduto”.
n quelle condizioni Carli rimane fino al 31 ottobre. Migliorato, viene trasferito al reparto di pneumologia. “Sempre sotto ossigeno ma tramite una comoda mascherina”. Il reparto è un sogno: “Ti puliscono, ti controllano le terapie, ti fanno mangiare, parli con i medici, ti sistemano il letto, la fisioterapia, cominci a camminare, vedi la fine del tunnel”. Nel frattempo ha perso otto chili.
Sulla sua pelle Carli è diventato un esperto del virus. “Nel decorso clinico del Covid – spiega – i medici mi hanno detto che c’è un bivio tra il 7mo e il 12esimo giorno per cui o vira in bene e allora è un’influenza oppure vira in quel 5-6% di casi che si ammalano di polmonite. La sfida è capire come evolve il range”.
Ombretta T. Rinieri
articolo pubblicato su “Il Notiziario” il 13 novembre 2020 a pag. 67