Sars-Cov-2. Reportage dal letto d’ospedale
7 Novembre 2020 | Inserito da Ombretta T. Rinieri under Cronaca, Inchieste, Sanitaria, sars-cov-2, Sociale |
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Ricevo da Stefano Carli, e pubblico, il racconto della sua drammatica esperienza di malato Covid. Dalla scoperta del contagio alle prime cure domiciliari con il monitoraggio del saturimetro e del protocollo standard, dal peggioramento dei sintomi alla malattia, dall’arrivo in solitudine al pronto soccorso dell’ospedale di Garbagnate Milanese al ricovero su una barella in uno stanzone affollatissimo del triage, dal contatto con la morte all’ossigenazione forzata nella Shock Area al trasferimento dopo giorni al reparto di pneumatologia fino al miglioramento.
In mezzo lo stupore per il contagio, la lontananza dalla famiglia e dagli affetti, la solitudine davanti alla malattia, la promiscuità in pronto soccorso, la dipendenza dagli operatori per i bisogni primari, il digiuno forzato, l’ammirazione per l’abnegazione e le condizioni di lavoro di medici e infermieri, il rumore assordante dei macchinari, il panico claustrofobico del casco per l’ossigenazione, i movimenti bloccati, la tenace volontà di lottare per guarire, l’arrabbiatura verso tutti coloro che minimizzano e o negano la pandemia perché tanto riguarderebbe solo un 5 per cento dei contagiati (ma nessuno può sapere se per caso non capiti proprio a lui!).
Stefano Carli ha sessantaquattro anni ed è un resiliente. Non mi interessa sottolineare se sia o non sia “vecchio”, come usa dire qualcuno in televisione della terza e quarta età, perché ritengo ogni vita umana preziosa indipendentemente dalla fase in cui si trova. Coraggiosamente, Carli si mette a nudo e racconta con dignità la sofferenza cui è andato incontro a causa del virus. Rende così partecipe i lettori della propria esperienza affinché l’opinione pubblica sia consapevole dei rischi cui si va incontro non rispettando le tre regole: mascherina; lavaggio mani; distanziamento fisico.
“Io credo che nessuno – conclude al termine del suo racconto – possa permettersi di accettare che qualche anziano non produttivo possa essere sacrificato pur di non ricorrere al lockdown. Nessuno di noi vuole diventare un anello sacrificale sull’altare del fatturato. Perché tutti noi abbiamo un parente anziano e tutti noi amiamo la propria famiglia. Il Covid è il nostro nemico; nemico di tutti”.
Per conto mio, come giornalista, ringrazio Stefano Carli per avermi scelta fra i mezzi di comunicazione per diffondere la sua storia. Una storia che ci riguarda tutti e che io pubblico qui con lo spirito di “servizio” che mi contraddistingue. Senza paure. Senza reticenze. Perché è importante conoscere per difendersi. Conoscere per combattere. Conoscere per decidere.
La mia esperienza con il Covid
Vivere e superare questa drammatica esperienza mi ha cambiato profondamente. Sento il bisogno di spiegare quanto sia subdolo questo male, quali scelte decisive ho assunto che mi hanno salvato, come ho vissuto la traumatizzante esperienza nel pronto soccorso, come ho visto morire gente accanto a me e spiegare a tutti le condizioni assurde di lavoro ed il rischio costante dei medici e degli operatori sanitari, giovani ragazzi e ragazze che hanno in mano le vite dei malati ma restano sottopagati e spesso poco considerati.
Infine voglio abbattere il negazionismo Covid ed evidenziare le vere condizioni dei pronto soccorso da dove passa tutta la sofferenza umana di chi non sa più a chi affidarsi.
Stefano Carli
Covid fase 1:
La mattina del 13/10 era proprio bella, calda e soleggiata. Ero contento della partita di golf del giorno prima condivisa con un grande giocatore professionista che mi aveva insegnato cose preziose del mio gioco preferito. Faceva così caldo (il 12/10 ) che gran parte della partita la feci con una semplice polo. Forse fu per questo azzardo fuori stagione che la mattina del 13/10 mi alzai con un po’ di tosse ed una sensazione strana di febbre in salita. Sarà una infreddata – pensai – ma alla sera la tosse aumento’ come pure la febbre.
Il giorno dopo, 14/10, comparve uno strano sintomo: una dissenteria inusuale, ed una perdita di appetito. A questo punto il 15/10 chiamai il medico curante che capi’ subito il problema è mi consiglio’ di fare subito un tampone Covid. Per ridurre i tempi prenotai per il 16/10 presso un centro medico privato ed il 17/10 ebbi il più terribile dei responsi : Positivo al Covid.
Subito il mio medico curante prescrisse il protocollo standard con antibiotico, eparina e cortisone. In breve i sintomi sparirono, la febbre calo’ ed il 20/10 sembrava che la fase 1 fosse conclusa e mi apprestavo ad attendere la fine della quarantena per fare il tampone di uscita.
Covid fase 2:
Purtroppo mi sbagliavo, grazie al controllo giornaliero con il saturimetro, dal 21/10 cominciai a registrare dati in picchiata fino a toccare la soglia importante del 90 per cento. Il mio medico curante prescrisse il 22/10 una Rx toracica di controllo ma non riuscii ad eseguirla perché come paziente Covid venivo rifiutato da tutti gli ospedali e centri specialistici.
La Scelta decisiva
Non mi ero accorto che un principio di polmonite stava penetrando subdolamente in me iniziando a danneggiare i polmoni in modo asintomatico. Infatti respiravo benem parlavo e camminavo forse appena in affanno ma niente febbre e solo un po’ di tosse.
Quando il 23/10 la saturazione scese sotto i 90 per cento, il mio medico ruppe gli indugi e decise ( cosa assai inusuale di questi tempi) di visitarmi a casa il 24/10. Una auscultazione dei polmoni ed una misurazione della saturazione con un saturimetro professionale confermarono i sospetti di polmonite. Immediatamente mi convinse a recarmi al pronto soccorso dell’ospedale Covid più vicino per un esame del sangue ed i RX al torace.
Alle 20,30 del sabato sera del 24/10 uscii di casa con uno zainetto con poche cose e e salutai mestamente mia moglie come il pescatore che salpa verso un mare nero e tempestoso. Non la rividi per 16 giorni.
Il Pronto soccorso
Arrivai al buio in auto da solo e aspettai nel triage Covid per 5 ore insieme al mondo dei potenziali pazienti Covid in attesa del loro triste ma scontato riscontro. Alla 1 di notte fui visitato da un bravo medico che esegui’ subito una Emogas (esame del sangue arterioso che misura la saturazione profonda nei polmoni) e la famosa Rx al torace. Agghiacciante la sentenza : lei questa notte non si muove di qui, la dobbiamo trattenere.
La notte la passai su una barella in uno stanzone affollatissimo del triage con una cannula di ossigeno nel naso. Prima notte tra gente che si lamentava e tanti movimenti di entrata ed uscita, ma avevo solo bussato alla porta dell’ inferno.
L’inferno si presentò con tutti i suoi ruggiti il giorno dopo quando fui trasferito in terapia subintensiva del pronto soccorso, e mi fu detto che la situazione era grave, ma che se avessi collaborato non sarei andato in rianimazione evitando la temutissima “ intubazione”.Non riuscii a capire cosa intendessero per “ collaborazione” ma poi capii e mi prese il terrore.
25/10: Il Pronto Soccorso nella parte della terapia subintensiva è di per se un luogo da medicina di guerra . In continuo arrivano pazienti solo Covid nelle più svariate condizioni, uomini e donne, gli operatori sanitari correvano da un letto all’altro, avvolti nella regola del tre ( tre tute, tre guanti, tre mascherine) che rendono il loro lavoro faticosissimo trasformandoli in angeli/demoni senza volto e senza espressioni.
I dirigenti ogni 6 ore scendevano e richiedevano nuovi posti letto requisendo i corridoi, le salette di supporto ogni buco che potesse contenere un letto veniva sfruttato. L’ umanità dei malati si scioglieva nei lamenti inascoltati da operatori presi come erano a rianimare arresti cardiaci e inserire drenaggi polmonari operando sul letto stesso del paziente. Vidi il primo morto che non superò un lungo massaggio cardiaco.
Il 25/10 sera mi presentarono L’Orco cioè il famoso Casco per l’ossigenazione forzata. Fui trasferito nella Shock Area ed il nome credo non fu dato a caso. Mi fecero indossare un casco di plastica pieno di tubi e ganci che mi ingabbiavano e m’impediva di girarmi o di sdraiarmi . Un immediato senso di claustrofobia mi assalì appena sigillarono tutto intorno alla mia testa lasciando due cm tra il naso e le pareti di plastica. Ma appena l’Orco cominciò a urlare fu il panico.
Un rumore assordante come quello di un aspirapolvere impazzito fece partire una pompa che spingeva ossigeno giù giù verso i polmoni . Il respiro parti’ a mille e cominciai a sudare, gli occhi cominciarono a bruciare e dopo pochi minuti la gola era ormai secca e mi venne subito l’istinto di liberarmi . Chiamai aiuto ma c’era troppo caos intorno, un paziente urlava per dolori al petto ed un altro comincio’ una danza assurda di tremori sul letto che ben presto si fermò . Era il secondo deceduto.
Capii allora che sarei sopravvissuto a quel girone dantesco se fossi riuscito a “ collaborare” con l’Orco. Diversamente sarei stato presto intubato in terapia intensiva di cui- avevo letto – che il 50 per cento non superava la prova. Mi ricordai gli insegnamenti di yoga e di training autogeno che aiutavano a dominare i comportamenti istintivi del corpo e cominciai a provare ad auto calmarmi ed a collaborare.
Passò così il 25 ed il 26 ottobre senza mangiare né muovere la schiena piegata a 90 gradi sulla stessa brandina del triage che ben presto cominciò a bruciare come il fuoco. Gli operatori sanitari faticavano a star dietro alla somministrazione delle terapie e solo con gran gesti riuscii a comunicare con loro per ottenere un po’ d’acqua. Non c’era sulla lettiga il classico pulsante di allarme.
La notte del 27/10 fu la più brutta, non mangiavo dal 24 a pranzo e rimpiansi si aver avanzato qualcosa nell’ultimo pranzo a casa. I vicini sofferenti piangevano litigando con le costrizione del Casco, ma non erano visibili perché non ti puoi girare, resti solo con il tuo problema, ognuno pensa solo a se stesso in uno spirito di sopravvivenza egoista ma triste.
Il telefono con la mia scheda abituale non funziono’ mai e quindi non riuscivo a comunicare che fossi vivo ne’ a rispondere alle chiamate che mi immaginavo sarebbero cresciute sempre più. Intorno il mondo si accalcava per cercare un posto in quel dannato reparto unica speranza per sopravvivere ai devastanti colpi di tosse.
La svolta
Il 28/10 una infermiera pietosa trovo’ finalmente un letto normale morbido e regolabile elettricamente . La mia schiena ringraziò. Cominciai a mangiare qualcosa nelle pause che adesso l’Orco mi concedeva. Appena mi veniva tolto il casco approfittavo per bagnarmi la faccia, grattarmi la lunga barba incolta, soffiarmi il naso. Le braccia ormai nere perchè bucate più volte per i numerosi e dolorosi prelievi ( emogas arterioso è particolarmente doloroso ed emorragico) . La pipi con il pappagallo, la maglietta ormai sudicia da 4 giorni. Un disastro. Di notte l’Orco non ti consente di dormire e solo a sfinimento ti appisoli qualche mezz’ora per poi risvegliarti tra gli incubi : non sai più dove sei, le crisi di panico, iper ventilazione calore ovunque. Ma dovevo resistere.
Il 29/10 arrivano i primi dati di miglioramento e quindi cominciamo a ridurre le ore dell’Orco a favore della più gestibile mascherina a ossigeno. Avevo forse superato l’abisso . Intorno però i malati che si aggravavano veniva trasferiti in terapia intensiva ed il loro posto veniva occupato subito da nuovi disperati che non respiravano.
Ammirevoli e instancabili i medici che cominciarono anche a tenere i contatti con le famiglie usando i loro telefoni. Parlai con mia moglie la sera del 29/10 e piansi nel sentire la sua voce.
Gli operatori sanitari sudati fradici fin dalle prime ore del turno, lavorano in condizioni difficilissime, gli occhiali appannati, le dita cotte dall’umidità di tre paia di guanti, fanno fatica a trovare le vene ad aprire e chiudere ossigeno, a praticare le medicazioni . Il tutto per turni massacranti e per stipendi da cooperative.
Il 30/10 vedo l’Orco solo la notte, la situazione migliora ancora di più ed il 31/10 sarà l’ultima notte con lui. Gli incubi mi seguiranno, ma il patto di collaborazione ha funzionato, forse adesso sono fuori.
Via dal pronto soccorso
Il 31/10 vengo trasferito nel reparto di pneumologia sempre sotto ossigeno ma tramite una comoda, mascherina. Il reparto è come una oasi dopo la traversata del deserto a piedi. Ti abbandoni al sonno perso in 7 notti di Orco , finalmente dormo anche sul fianco, mangi cibi caldi da sogno anche se a casa tua storceresti il naso, utilizzi finalmente il bagno in autonomia, ti godi l’alternarsi ordinato della routine di un ospedale non di guerra: ti puliscono, ti controllano le terapie, ti fanno mangiare, parli con i medici, ti sistemano il letto, la fisioterapia, comici a camminare , vedi la fine del tunnel.
Cominci a parlare con i vicini di letto, l’umanità non urla più il suo dolore, si unisce nel percorso di guarigione, finalmente emerge la solidarietà, ci si scambia le esperienze. Ormai i progressi sono galoppanti, dimentico il letto, sto sempre più in piedi e finalmente riduzione dei medicinali, si toglie il monitoraggio che ti trovavi sempre dietro la schiena, incominciamo a respirare in autonomia.
Il 3/11 siamo quasi arrivati all’ obiettivo di 200 nella saturazione profonda alveolare, adesso sono io che incalzo il Covid, lo bracco ovunque non gli do tregua, esercizi di ventilazione, camminate nel corridoio, vedo una bilancia …. 15 giorni fa ero 82 chili. Salgo timido e non ci credo : 74 chili. Il Covid mi aveva rubato 8 chili ed un vetro impietoso mi disse dove li avevo persi .
Il 5/11 ormai sono senza ossigeno di supporto, ormai lo sto azzannando questo Bastardo Covid , non lo mollo, voglio il suo scalpo. Forse domani il tampone e poi a casa.
Cosa ho imparato
- non si può stare più di tre giorni con febbre alta senza esami di controllo
- Il saturimetro è la sentinella più importante, usalo sempre
- Le terapie anti Covid devono essere clusterizzate e standardizzate presso i medici di famiglia, non si deve improvvisare.
- Ogni giorno perso in un atteso ed improbabile miglioramento ti fa sprofondare nelle sabbie mobile della polmonite. Farsi prescrivere subito RX torace e prelievo emogas sotto i 93- 90% di saturazione
- Non farsi prendere dal panico durante il primo periodo di ricovero in pronto soccorso vero “passaggio agli inferi”
- Prima ti fai ricoverare, prima inizia l’inversione della curva di discesa.
- Non mollare e pensare sempre di farcela anche nei momenti più drammatici.
Cosa dobbiamo dire a tutti
- Imparate a difendervi bene con mascherine adeguate FFP2 e, nei posti più affollati, anche la visiera per proteggere gli occhi
- Monitorare ogni eventuale sintomo e non aspettare troppo per fare esami specialistici in caso di test positivo e persistenza della febbre
- Informare i giovani del loro enorme potenziale infettivo verso gli adulti nel caso di una loro positività anche se per loro non rappresenta quasi mai un grosso problema
- I giovani devono conoscere le enormi sofferenze che possono arrecare ai loro parenti in caso di contagio . Devono essere consapevoli del loro potenziale distruttivo
- Che il Covid colpisce circa il 5 per centodei soggetti con tampone positivo nel modo che vi ho descritto. Di questo 5 per cento, un l’1 per cento muore quasi subito, un altro 1 per cento va in terapia intensiva a pancia in giù per essere intubato.
- Non credere alla favola dei negazionisti sulla situazione non critica dei pronto soccorso. Chi non crede deve provare solo una notte e vedrai come si ricrederà
Cosa non sappiamo degli ospedali
Ho riscontrato personalmente l’affollamento incredibile dei pronto soccorso, la gestione delle problematiche a livello di medicina di guerra, il convulso alternarsi di crisi e drammi personali, la mancanza di spazi, la mancanza di personale, la pressione delle ambulanze in attesa.
Bisogna far sapere che la crisi dei pronto soccorso non è una invenzione dei politici ne’ uno strumento per ottenere vantaggi per gli ospedali. È cruda e vera realtà piena di sofferenze, di umanità piangente, di solitudine di isolamento ed alla fine di disperazione.
I medici e gli operatori operano in una difficoltà incredibile partendo dai sistemi di sicurezza che li espongono continuamente al contagio. Chi di noi lavorerebbe 8 ore al giorno in un ambiente chiuso in cui sono affollati decine di positivi Covid con il massimo di carica batterica? Lo fareste per 700 euro al mese? Si perché gli addetti alla pulizia ed alle mansioni più semplici non sono dipendenti dell’ospedale ma spesso sono cooperative che lavorano per conto dell’ ospedale ne’ più ne’ meno degli addetti alle pulizie dei supermercati .
I DPI che devono indossare rendono i loro movimenti difficili, li fanno sudare come in una sauna, ma non possono bere per non essere costretti troppo di frequente ad andare in bagno cambiandosi completamente e rivestirsi con enormi perdite di tempo e spreco di materiali. Molti usano i pannoloni. Ho visto gli occhiali appannati che rendono difficile dosare una iniezione, aprire un rocchetto di garza adesiva, aprire una confezione sigillata con la plastica.Tre paia di guanti rendono insensibili le dita degli infermieri che fanno fatica a individuare le vene o le arterie per il prelievo, spesso ripetuto con enormi ematomi per il paziente. Le bende adesive che si appiccicano ai guanti, ai camici, ti ci avvolgi dentro e non ne esci più.
C’è poca considerazione e riconoscenza per questi operatori sanitari e per questi medici.
Conclusione
il Covid non è una semplice influenza, che presenta solo una piccola percentuale di perdite accettabili . il Covid colpisce tutto il sistema sociale le relazioni e la stabilità familiare. Io credo che nessuno possa permettersi di accettare che “ qualche anziano non produttivo “ possa essere sacrificato pur di non ricorrere al Lock down. Nessuno di noi vuole diventare un anello sacrificabile sull’ altare del fatturato. Perchè tutti noi abbiamo un parente anziano e tutti noi amiamo la propria famiglia. Il Covid è il nostro nemico; nemico di tutti.
Stefano